I recenti crimini d’odio perpetrati da ebrei israeliani contro ebrei e arabi hanno aperto nella società israeliana una ferita sanguinante. Non è la prima volta che gli israeliani effettuano tali crimini contro ebrei o arabi. Nel 1983, l’attivista pacifista Emil Grünzweig fu ucciso da una bomba a mano lanciata in una manifestazione per la pace a cui stava prendendo parte a Gerusalemme. E ricordiamo tutti l’assassinio del primo ministro Itzhak Rabin avvenuto nel 1995 per mano dall’ultranazionalista israeliano Yigal Amir.
Gli omicidi avvenuti di recente sembrano in una qualche maniera più sinistri e più indicativi del nostro stato come società. Alcuni dicono che non dovremmo giudicare noi stessi così duramente, perché gli arabi e le altre nazioni si comportano molto peggio di noi. In effetti, se consideriamo il modo in cui siriani, iracheni, egiziani e altri paesi arabi si trattano l’un l’altro, sparandosi, bruciandosi, e gassandosi fino alla morte, si potrebbe dire che hanno ragione.
La competizione a chi sarà l’ultimo dei malfattori, tuttavia, è esattamente il tipo di gara a cui non vogliamo aderire. È positivo che dopo questi atroci atti di odio stiamo conducendo un così profondo esame di coscienza. Essere cattivi come tutti quelli del quartiere non giustifica tali atti, né ci rafforza.
C’è una buona ragione per cui noi e il mondo pretendiamo da noi stessi più di quanto facciamo per le altre nazioni. Il mondo ha fatto degli ebrei i portatori del dogma della pace e dell’amore. Quando siamo diventati una nazione, ai piedi del Monte Sinai, ci siamo impegnati ad essere una luce per le nazioni, e il dogma da diffondere che abbiamo preso su di noi è “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Non fa differenza se non siamo stati in grado di portarlo a termine negli ultimi due millenni, o che il Tempio sia stato distrutto a causa del nostro odio reciproco. Il Cristianesimo e in larga misura l’Islam, hanno adottato questo motto come il loro primo valore, ma non sono riusciti a realizzarlo. Ora ci giudicano severamente perché inconsciamente si aspettano che noi gli spianiamo la strada, per mostrare loro come realizzarlo. Inconsciamente, e talvolta coscientemente, ci aspettiamo questo anche da noi stessi.
Ma invece di “Ama il prossimo tuo” e della responsabilità reciproca, siamo preda di valori che dominano il nostro ambiente. Omofobia, xenofobia e altre forme di razzismo danneggiano il cameratismo che cerchiamo di stabilire tra di noi. È il momento di ripensare ai nostri valori.
Il nostro più grande e forse unico nemico è la nostra frammentazione. Non abbiamo bisogno di essere tutti uguali; la nostra forza sta proprio nella nostra diversità, purché ci uniamo al di sopra di essa. Quando raggiungiamo questo, diventiamo un modello di unione al di sopra delle differenze. In questo modo dimostriamo che quanto più siamo diversi, più unico è il contributo di ogni persona e di ogni fazione nella società.
Pensate alla diversità nella società americana. Se gli americani potessero davvero unirsi al di sopra della loro crescente frammentazione, abolendo la divisione tra neri, ispanici, bianchi e immigrati che sono stati a lungo in attesa dei loro permessi, diventerebbero un fulgido esempio di pace e armonia. Ma come spiega l’autore del Sulam (La Scala) nel commento a Il Libro dello Zohar, Rav Yehuda Ashlag, nella sua introduzione a quel commento (articoli 66-71), le nazioni non saranno in grado di farlo fino a che noi ebrei non lo compieremo prima tra di noi, aprendo quindi la strada al resto del mondo. E come ho detto al Prof. Charles Asher Small in un incontro affascinante che abbiamo avuto un paio di mesi fa, dato che non saranno in grado di raggiungerlo a meno che noi non lo facciamo prima, ci incolperanno della frammentare della loro società e di portare ad una guerra tra l’America e gli altri paesi, qualora non avessero già iniziato.
Originariamente pubblicato su L’Huffington Post Italia