Immagini di grande introspezione e di una comunità profondamente connessa descrivono la vivida atmosfera dei Giorni del Timore reverenziale (Yamim Anoraim), che ogni autunno riempiono le sinagoghe. Quest’anno, per la prima volta nella storia, il Covid-19 ci darà una sensazione completamente diversa di queste festività poiché si svolgeranno principalmente su piattaforme virtuali piuttosto che con riunioni fisiche di massa. La distanza fisica che ci viene imposta non è casuale. Riflette il nostro stato interiore come popolo ebraico. Quest’anno le grandi festività offrono un’opportunità speciale di trasformazione, per innalzarci dalla nostra attuale divisione e unire i nostri cuori.
Le nostre nuove condizioni sono in realtà un’indicazione e una direzione dall’alto di quello che le nostre preghiere, in particolare durante le festività ebraiche, dovrebbero rappresentare. Ora è il momento ideale per fermarsi e riflettere sulla nostra presenza nel mondo, come popolo: così diviso, pieno di odio infondato, privo di connessione o reciprocità. Una preghiera potente ed efficace dovrebbe essere una richiesta unita per l’intera nazione e com’è possibile se ci teniamo a debita distanza in opposizione interna? Se questo è il nostro stato, allora dovremmo anche sentire la distanza fisicamente. Questo è il messaggio contenuto nelle condizioni uniche presentate quest’anno dalla pandemia.
É un bene sentire quanto i nostri giochi egocentrici rinchiudano ognuno di noi in sé stesso, quanto sia difficile aprire il cuore verso qualcuno con un’opinione diversa e quanto siamo divisi in fazioni e partiti e correnti. Abbiamo un orgoglio naturale per la nostra comunità e il nostro nome, ma non dovrebbe mai essere usato per sminuire, disprezzare o maltrattare gli altri. La nostra diversità è meravigliosa ma ci dovrebbe essere qualcosa che ci connette come uno, al di sopra di ogni forma e colore. Attualmente ci manca questa corona onnicomprensiva di amore tra noi.
Quest’anno quindi, anziché riunirci meccanicamente, dovremmo sederci da soli e piangere lo stato frammentato e miserabile in cui siamo decaduti come popolo. Non appena ci renderemo conto di ciò che dev’essere corretto, cioè la nostra frammentazione di nazione ebraica, una vera preghiera scoppierà dalla profondità dei nostri cuori dando vita alle parole vuote recitate dal libro di preghiere.
In origine, una sinagoga o beit knesset (dall’ebraico kinus, congregare) simboleggiava una casa di connessione, un luogo dove tutti si riunivano insieme per cercare un potere supremo di amore e dazione. Se quest’anno le circostanze straordinarie non ci permettono di riunirci fisicamente, deve essere un’indicazione che siamo arrivati a un vicolo cieco sul nostro attuale cammino. Ma c’è un lato positivo: quando il male si rivela, fornisce un invito per correggere la rotta e tracciare un nuovo cammino verso una forma di esistenza più avanzata.
Oltretutto, l’era del coronavirus illumina qualcosa che è stato nascosto fino ad ora. Se nel passato potevamo essere separati nei cuori, ma stare seduti comunque vicini, non possiamo più farlo. Esiste una legge in natura che ci richiede di adattarci ad un mondo che si è evoluto in uno stato fortemente interconnesso. Quindi, non possiamo più relazionarci ad “ama il prossimo come te stesso” come una banalità bella ma vuota. Questa è la formula assoluta per la connessione reciproca, senza la quale sarà impossibile sopravvivere. Stiamo entrando in un nuovo grado evolutivo dove ognuno sentirà l’altro davvero come parte di sè e diventeremo realmente come un unico uomo con un unico cuore.
Il progetto pilota per la connessione integrale tra le persone deve avvenire prima tra noi, gli ebrei. E quando decifreremo il nuovo codice per la connessione tra noi, illumineremo il cammino per tutti gli altri popoli. Il risultato finale sarà gioia, salute e prosperità, cioè un’abbondanza suprema che scorrerà nei nostri cuori connessi.
Originariamente pubblicato su Unitingeurope.blogactiv.eu